Un serpente contro l’altro! (Anno B, IV dom. quaresima, Gv 3,14-21)
Nel buio della notte si svolge un intenso dialogo tra Gesù e Nicodemo. Questi non è un fariseo come tanti altri, non è chiuso nella sua monolitica verità, ma ha un cuore aperto alla novità ed è curioso di conoscere Gesù. Gesù pronuncia parole misteriose. Ad un certo punto rievoca un episodio lontano della storia di Israele. Il popolo era nel deserto e aveva peccato contro il Signore. Il libro dei Numeri racconta che comparvero allora dei serpenti, i cui morsi procurarono la morte a molti Israeliti. Pentito, il popolo chiese aiuto a Mosè. Dio fece innalzare un serpente di bronzo. Chiunque lo avesse guardato, sarebbe stato guarito. A partire dal racconto della disobbedienza di Adamo ed Eva, il serpente è sempre stato simbolo del peccato. Dice il libro del Siracide: «Come davanti a un serpente, fuggi il peccato: se ti avvicini, ti morderà. Denti di leone sono i suoi denti, capaci di distruggere vite umane» (21,22).
Ed ecco Gesù paragonarsi a quel serpente di bronzo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3, 14s). Si tratta di una cura, per così dire, omeopatica. Per guarire dal male devi avere il coraggio di guardarlo. Solo nella luce della verità che ti fa vedere il male puoi guarire dal male. Tuttavia solo Dio può dare la luce per guardare il male senza esserne sopraffatti, ma liberati. Se il serpente di bronzo innalzato nel deserto da Mosè restituiva la vita agli israeliti, il nuovo serpente Gesù, essendo Dio, innalzato sulla croce, restituisce la vita eterna all’umanità peccatrice. Guardare Gesù crocifisso significa ricevere la luce interiore per guardare nella verità il nostro peccato, ed esserne guariti, perciò la Scrittura dice: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Infatti «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). Per crucem ad lucem! La luce ci arriva dalla croce. In Gesù crocifisso, fattosi peccato per noi, noi vediamo la verità di noi stessi e la morte del nostro peccato.
Non fu inutile quel dialogo notturno per Nicodemo. Ma lo capì veramente sotto la croce. Anche per lui la verità passò da quella morte ignominiosa, ma salvifica, del Signore. Non ebbe più paura, non si rifugiò più nella notte, ma senza nascondersi, insieme a Giuseppe d’Arimatea, portò «trenta chili di una mistura di mirra e aloe» (Gv 19, 39) e si prese cura della sepoltura di Gesù.
Mentre, dopo la morte di Gesù, si faceva buio su tutta la terra, la Luce preparava prepotente il suo arrivo nell’alba della risurrezione. La ferita del costato trafitto di Gesù donava già i segni del suo perdono e della sua misericordia: il sangue e l’acqua; e quella ferita diventava un varco di speranza da cui la Luce avrebbe cominciato a sprigionarsi. Davvero: «notte fonda, notte oscura ci fascia – nera sindone -, se tu non accendi il tuo lume, Signore!» (D.M. Turoldo).