Ogni figlio ha la sua storia! (Domenica della Santa Famiglia, Anno B, Lc 2,22-40)
La giovane famiglia non ha ancora finito di stupirsi per la visita dei pastori e per i saggi d’Oriente giunti alla grotta ed ecco altri avvenimenti sopraggiungono a sconvolgere la vita di Giuseppe e Maria con segni misteriosi e parole che riguardano il bambino appena nato.
Ora bisogna andare al tempio ad offrirlo al Signore, perché è un primogenito e bisogna fare un sacrificio per lui, che sia anche solo di due tortore o di due colombi; così prescrive la Legge del Signore. Quel sacrificio forse ricorda un tempo religioso arcaico, quando ad essere sacrificati erano proprio i bambini primogeniti, poi sostituiti con gli animali. Dio, infatti, lo ha chiesto ad Abramo, ma poi non gli ha permesso di sacrificare il suo primogenito, Isacco; in questo modo ha messo alla prova la sua fede e nello stesso tempo ha abolito quell’usanza così crudele. Abramo, infatti, per la sua fede, era disposto a rinunciare al figlio che avrebbe dovuto assicurargli una discendenza numerosa come le stelle del cielo (Gn 15, 1-18). «Egli pensava, infatti, che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,19). Sì, fu un simbolo: di un altro Figlio, novello Isacco, morto e risorto per la salvezza del mondo. Infatti «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
Questo Figlio è appena nato, lo stanno portando al tempio, si chiama Gesù. L’atmosfera è gioiosa; e invece, nel tempio, si carica subito di tensione. Un anziano si congeda dalla sua vita avendo visto in quel bambino colui che i suoi occhi attendevano di vedere, il Messia atteso. Ecco la santa famiglia, davanti al mistero che accompagna il futuro del proprio bambino! Cosa può insegnare alle famiglie di oggi, pur essendo unica tra tutte le famiglie, ma forse proprio per questo? L’umiltà e la semplicità. Maria e Giuseppe non si montano la testa, non stanno lì a raccontare di visioni di angeli, di sogni risolutivi, di pastori in adorazione, di sapienti venuti a cercarli fino a Betlemme a motivo del loro bambino; non decidono di trasferirsi a Gerusalemme per assicurare a Gesù una buona carriera da Messia. Tornano alla loro umile e semplice quotidianità, rimanendo quello che sono. Oggi spesso i genitori proiettano sui figli la realizzazione di tutte le più improbabili profezie. «Tuo figlio sa giocare al pallone», allora deve diventare un calciatore famoso: scriviamolo nella migliore scuola di calcio; «ha un buon orecchio musicale», allora farà il direttore d’orchestra: trasferiamoci dove c’è il miglior conservatorio; «tua figlia nuota bene», chissà che non sia la nuova Pellegrini: portiamola tre volte la settimana in piscina! Oppure sperano che loro realizzino quello in cui loro non sono riusciti, oppure, peggio ancora, pretendono che portino avanti la tradizione di lavoro della famiglia. Ogni figlio, invece, ha la sua storia, che va accompagnata con lo sguardo e il silenzio; una storia aperta all’incertezza della vita, in cui non conta il successo, ma l’amore di cui sarà circondata. Solo in forza di questo amore una madre può restare in piedi anche se trafitta da una spada di dolore, come è stato per Maria sotto la croce. Dunque, Giuseppe e Maria partono verso Nazareth, custodi del figlio, non padroni. Starà con loro trent’anni, crescendo «in sapienza, in età e in grazia, davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc 2,52). Quella normalità nascosta, fatta d’amore, ha costruito la potente personalità umana di Gesù di Nazareth.