Non il mio applauso (a Scruton)
(Questo mio scritto risale al 2009. Mi dispiace ovviamente apprendere che nel frattempo purtroppo Roger Scruton, al quale va tutto il mio rispetto e la mia stima, ci abbia lasciati)
Ho avuto la gioia di partecipare al Convegno Internazionale organizzato dal Progetto Culturale della Conferenza Episcopale Italiana: “Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto”. E’ stato un alternarsi di momenti di altissima formazione. Indimenticabili per me sono stati l’incontro con Aldo Grasso (la cui visione delle cose apprezzo quotidianamente nei suoi interventi sulla televisione), con mons. Gianfranco Ravasi e mons. Pierangelo Sequeri, quest’ultimo capace in pochi minuti di far entrare nel mistero della musica di Messiaen. Tuttavia l’applauso più lungo della platea è stato per l’intervento del filosofo inglese Roger Scruton, vate del rapporto tra la Bellezza e il Sacro.
Ecco, vorrrei dire che in quell’applauso non c’era il mio.
Il discorso di Scruton, scaricabile dal sito del convegno (http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/9052/Scruton.pdf), mi ha lasciato perplesso. Propone una via a mio parere troppo facile e rassicurante per essere percorribile. Troppo facile, infatti, non guardare a quello che non corrisponde al nostro canone di bellezza e volgersi solo ad una parte; troppo facile e, in definitiva, più pericoloso. Il ritorno alla bellezza come scelta di un gusto al posto di un altro rischia di gettare il disprezzo sull’arte del secolo scorso, in cui l’unica bellezza armonica che si è rappresentata è stata quella dei giovani ariani, belli come statue greche, dipinti, scolpiti o fotografati dagli artisti nazisti. Non si può ora, con una certa superficialità, rimproverare a quel secolo di aver rifiutato quell’ideale, né liquidare le sue forme d’arte estrema come estranee a quello strazio. Possiamo non approvare un certo manierismo di artisti contemporanei in cerca di soldi che, pur di colpire i loro collezionisti, scadono nel blasfemo e nel pornografico, ma non dobbiamo permetterci di farci sfuggire il filo doloroso che ne ha prodotto l’esistenza. Come reazione a tutto questo e alla grande incertezza che serpeggia nella società attuale un certo neoconservatorismo si propone come antidoto, riproponendo i propri dogmi anche estetici. Si implora il ritorno della religione anche senza misticismo, il ritorno della preghiera anche senza fede, della bellezza anche senza il suo senso, atterriti dalla considerazione che possa esistere (come sempre è esistito) un misticismo senza religione, una fede senza preghiera, un senso senza bellezza. Mi sembra anche questo desiderio una forma larvata di disperazione. Si invocano la tradizione, la natura, i valori: forse un po’ troppo tardi. La maggior parte di questi neoconservatori sono ricchi sfondati, vivono nei quartieri luccicanti e si fanno le vacanze nelle isole povere, attrezzate per loro di tutti i confort, danno la caccia alla volpe nel verde delle campagne inglesi e sognano un mondo in cui è chiaro che non tutti, se deve essere bello e confortevole, possono entrare. La loro nostalgia della bellezza sembra più paura di ciò che potrebbero perdere che desiderio struggente di ciò che non hanno mai avuto (la nobile Sehnsucht). Scruton propone un’estetica della bellezza in cui non riesco proprio a ritrovarmi: lo squarcio del cielo e l’improvviso raggio di sole in una giornata uggiosa o l’immagine della tavola preparata con amore dalla mamma “con una tovaglia ricamata e pulita”, l’ideale estetico-contemplativo da lui proposto per la vita quotidiana, mi sembra una pura evasione e dichiara la volontà di non cogliere nell’arte, anche nelle sue forme estreme, sempre il grido dell’uomo, la disperazione dell’uomo, la sua angoscia. Se l’estetica ha a che fare etimologicamente con ciò che dobbiamo “sentire”, allora la cura per una bella tavola può anche sfuggire all’arte, ma così non deve essere di una tavola che una madre alcolista non è riuscita a preparare per i suoi figli; di quella tavola desolata solo l’arte ci può parlare, scuotendoci. Per Scruton sembra proprio che, se l’angoscia e la disperazione non producono bellezza, allora sono indegne dell’uomo. Ciò che è brutto nell’arte – sembra dirci – è sempre immorale: nasce dalla mollezza dei costumi di chi ha avuto sempre tutto; mentre sappiamo bene quanto possa essere immorale il bellissimo mausoleo di un dittatore costruito sul sangue dei suoi sudditi. Nel suo discorso Scruton evidenzia che quando una società soffre produce bellezza, quando è sazia produce vizio e deformità. Può in parte essere vero, ma non al punto da teorizzarne un’estetica. Non è facile che l’uomo nella sua angoscia esistenziale si innalzi alle altezze estetiche dell’Apollo del Belvedere; più facilmente l’angoscia lo porterà a strappare o sporcare ciò che incontra, gli renderà insopportabile la bellezza dell’Apollo dinanzi al buio della sua anima: l’arte è anche questo e per questo merita rispetto. E in verità gli artisti che scolpivano l’Apollo perfetto erano quelli che a 50\60 anni organizzavano un simposio per bere la cicuta e si suicidavano insieme per non subire la sofferenza e il dolore del decadimento fisico, preludio alla morte. Può darsi, cioè, ma questo Scruton neanche lo immagina, che sia la stessa angoscia a produrre nell’antica Grecia il Discobolo di Mirone e a ispirare, oggi, la musica del gruppo svedese heavy metal Meshuggah, che lui cita con disprezzo. Ciò che a noi deve interessare, da credenti, è se sappiamo rendere credibile la risposta di Dio alla domanda (anche inespressa) dell’angoscia dell’uomo, non il modo in cui l’uomo decida di esprimerla (e l’arte è anzitutto questa espressione). L’inquietudine di Michelangelo era la stessa sia nella perfetta Pietà Vaticana sia nella pietra straziata della Pietà Rondanini. Se fosse vissuto nel Novecento forse sarebbe stato un Picasso, ma perchè non Kiefer, Serrano, Witkin o Barney dopo l’assurdità, esteticamente irrappresentabile, di ciò che è accaduto ad Auschwitz e dintorni? E’ vero: esiste un’arte dissacrante, pornografica, irriverente (Scruton cita i fratelli Chapman). Ebbene, cosa facciamo: ci turiamo il naso, chiudiamo gli occhi e non ci chiediamo perchè queste espressioni artistiche esistano, da quale malessere provengano? E le opere elogiate da Scruton, quelle di Inshaw, sono coraggiose o codarde? Certo è più facile andare per il nostro viottolo alla ricerca di un romantico raggio di sole (esperienza del numinosum), piuttosto che chiedersi cosa è venuto a mancare all’uomo se produce questa merda (l’arte “scatologica” non grida forse questo?).
Infine un’ultima nota, a ruota libera. La visione di Scruton mi appare se non anti-cristiana, certamente lontana dalla visione estetica del cristianesimo. Il modello di rappresentazione cristiano è certamente dato dal mistero dell’incarnazione, cioè dal Cristo. L’estetica cristiana trova in Lui il suo fondamento. Ebbene Cristo diventa il più bello dei figli dell’uomo, sulle sue labbra è diffusa la grazia, davvero nel momento in cui non ha più apparenza nè bellezza per attirare i nostri sguardi, quando può dire con il profeta: verme sono, non più un uomo. L’arte cristiana (soprattutto in Occidente) non ha mai esitato a conciliare questi due estremi nelle sue rappresentazioni: basta leggere la divina commedia di Dante, i racconti di Flannery O’Connor, ma anche le rappresentazioni demoniache e zoomorfe dal Medioevo al Barocco, i crocifissi belli e inguardabili della tradizione iconografica. Questa estetica sta suo malgrado alla base del brutto nell’arte contemporanea, ad essa, anche inconsapevolmente, gli artisti attingono: ciò che in loro manca è proprio Cristo, cioè il senso profondamente salvifico che acquista l’attraversare le regioni del male per chi sa che è solo un’esodo, una pasqua, un canale necessario per uscire da un’altra parte. Immagini come quelle dei film di Lars von Trier (Le onde del destino, Dancer in the dark, Dogville) sono profondamente cristiane, ma svuotate della redenzione; rappresentano la disperazione senza più nessuna teologia che le tragga in salvo; possono disgustare, ma sono vere, e se sono vere, sono una via di bellezza anch’esse, sub contrario. Quando ho visto il Piss-Christ di Serrano, mi sono turbato. Per far soldi si immerge un crocifisso nell’urina? Ebbene, a maggior ragione forse, se quell’immagine ha reso ricco il suo artista, allora esprime ancora oggi un’insopprimibile verità, che all’arte compete di rappresentare: il Crocifisso continua ad essere disprezzato e reietto tra gli uomini; svolge ancora la sua funzione di smascheramento di ogni egoismo umano, di ogni violenza o delirio di onnipotenza, restando indifeso dentro la materia che è venuto ad assumere. Dio lo ha reso peccato fino alla fine dei tempi, anathema per tutti, pur di salvare ad ogni costo qualcuno. Ecco, l’estetica del crocifisso ci ricorda che questo mondo non è la nostra casa (Scruton sostiene il contrario) e solo per questo è sopportabile l’ingiustizia che ancora incombe sul mondo. L’estetica della forma, la visione platonico-kantiana della bellezza ostentata come unica via di salvezza per il Sacro, somiglia all’etica di chi vuole madre Teresa santa subito, ma mai si sarebbe sognato, quando era una suora sconosciuta, di trascorrere un giorno con lei tra i moribondi di Calcutta.