“Io ho la mia spiritualità”

Sempre più spesso, in dialoghi con persone che si dichiarano atee, mi sento dire, quasi a giustificarsi: «però ho una mia spiritualità!». Davvero, nonostante mi sforzi, non riesco a capire questa frase. Perché tirare in ballo la spiritualità? Uno è ateo, e basta… semmai deve avere (come il credente) la sua semplice umanità… ma allora in cosa consiste questa spiritualità non credente? Nella ricerca di migliorare se stessi? Ma questo è richiesto a tutti, mica solo ai non credenti che dicono di avere una spiritualità! E il credente mica deve invocare Dio per migliorare se stesso, deve semmai farsi guardare da Dio mentre cerca di migliorare se stesso, ma sempre nella sua umanità, cioé dal basso, perché i doni spirituali, nella prospettiva del credente, sono teologali, vengono cioé da Dio e sono invisibili nei comportamenti (fede, speranza, amore)… le virtù umane crescono invece esercitando la propria umanità, indipendentemente dal fatto che si sia credenti o non credenti! Viene allora un sospetto. Che la frase «Io ho una mia spiritualità» corrisponda, più coerentemente col termine “spiritualità”, alla frase: «anch’io ho il mio dio»; ma quale “dio” visto cha la persona si dichiara atea? Qual è il punto di riferimento adorante visto che non è Dio? Temo, ahimè, che sia l’io. Temo che dietro quell’espressione, «però ho una mia spiritualità!», ci sia un larvato e pericoloso narcisismo, un “antropoteismo” che impone l’ascolto solo dei propri desideri e del proprio piacere; insomma che sia diventato un anelito popolare l’aspirazione filosofica dell’autodivinizzazione. Adorare il proprio “io” diventa una forma di religione ancora più pericolosa, perché fa dell’opinione personale un dogma e del proprio piacere il culto quotidianamente praticato.

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