Nessuno è impuro per Cristo! (Anno B, VI Dom. Tempo Ordinario, Mc 1,40-45)
La lebbra, specialmente nei Paesi poveri, incute ancora paura per il pericolo di contagio e la difficile guarigione.
Nella Bibbia la legge impone al lebbroso di allontanarsi da tutti, andando a vivere fuori dalla comunità. Altro che quarantena! Costretto a segnalare la sua presenza gridando: «Impuro, impuro!» o legandosi un campanello al piede, il lebbroso è la figura del vero emarginato.
Ma, da sempre, alla lebbra, si unisce una connotazione negativa di natura morale. L’espressione “scansare qualcuno come un lebbroso” indica un rifiuto che non ha niente a che vedere con la malattia fisica, ma che implica un giudizio morale sulla persona. Dietro ci sta l’idea che alla malattia debba essere legata necessariamente una colpa. Un’idea molto radicata in tutte le culture e presente anche nella storia biblica.
Quando l’uomo biblico si ammala per prima cosa pensa di aver peccato. Nella visione unitaria di corpo, psiche e spirito, egli pensa che, se il suo corpo si ammala, allora è stata la parte psichica e spirituale a meritarsi un castigo. «Per il tuo sdegno non c`è in me nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati», recita il salmo 38 (v. 4). Addirittura alcuni testi stabiliscono una relazione diretta tra la malattia e il peccato che l’ha causata, ad esempio Sap 11,6: «Con quelle stesse cose per cui uno pecca, con esse poi è castigato». Essendo la lebbra una malattia i cui effetti sono particolarmente disgustosi a vedersi, viene interpretata come una punizione particolarmente eclatante da parte di Dio. Essa per esempio colpisce Maria nel momento in cui mormora contro Mosè inviato di Dio: «La nuvola si ritirò di sopra alla tenda ed ecco Maria era lebbrosa, bianca come neve» (Num 12,10). E colpisce il re Ozia che va contro la volontà di Dio; a lui, infatti, «mentre sfogava la sua collera contro i sacerdoti, spuntò la lebbra sulla fronte davanti ai sacerdoti nel tempio del Signore, presso l’altare dell’incenso» (2Cr 26,19). Questo pregiudizio, che vede nella malattia la manifestazione di un peccato, è ancora molto radicato ai tempi di Gesù; infatti, vedendo un cieco nato, i discepoli gli chiedono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?»
Gesù scardina questo pregiudizio: «Nè lui ha peccato, nè i suoi genitori» (Gv 9,2s). In verità, anche oggi, tra i nostri cristiani, non è raro veder collegata una sofferenza all’idea di castigo divino. Gesù, incontrando un lebbroso che lo implora di guarirlo, c’insegna un altro atteggiamento: la compassione. Avere compassione significa prendere su se stessi il peso dell’altro, toccandolo, compromettendosi con la sua carne dolorante; come Gesù, che toccò il lebbroso, rendendosi, secondo la legge del Levitico, Egli stesso immondo. Non esiste lebbra, fisica o interiore, che il Signore non voglia guarire. Per farci strumento della sua guarigione dobbiamo lasciare che il suo Amore, vincendo il nostro peccato, accorci tutte le distanze e ci faccia toccare il dolore anche di chi è disprezzato e allontanato da tutti.
Francesco d’Assisi, che, imitando Gesù, un giorno diede il suo bacio ad un lebbroso, così scrive nel suo Testamento: «Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo».
Complimenti, un bel sito dove poter leggere un commento, scorrevole e approfondito, delle Sacre Letture. Non sapevo di questo sito. Lo metterò tra i preferiti