Aspettando… Chi?! (Mt 24,37-44, Anno A, I dom. avv.)
Ognuno di noi, fin dalla sua nascita, ha cercato di costruire la sua vita attorno a dei valori e ad alcuni desideri che gli sono nati nel cuore, e si è posto degli obiettivi, delle mete da raggiungere. La vita è una paziente attesa, che tutti vorremmo ad un certo punto finisse per vedere con i nostri occhi che ciò per cui abbiamo lavorato ha prodotto il suo frutto. In effetti attendere significa anche impegnarsi a lavorare, a fare sacrifici. Si attende qualcosa, qualcuno; ma si attende anche a qualcosa, a qualcuno. Nessuno può attendersi il raggiungimento di un obiettivo se non abbia anche atteso a tutto ciò che serviva per raggiungerlo. E’ bello quando un’attesa si risolve con l’arrivo di ciò che si desiderava; ma l’attesa è una dimensione dell’essere umano che non si esaurisce mai. Si finisce un’attesa e se ne comincia un’altra; si realizza un desiderio e se ne avverte un altro. Collocare l’attesa e il desiderio nell’orizzonte limitato del tempo umano significa rischiare di morire sentendosi incompiuti; anzi: è cosa certa che sarà impossibile nell’arco di una vita soddisfare tutte le proprie attese. La nostra società contemporanea, non aspettandosi più niente da Dio, vive l’attesa come una frustrazione insopportabile. Nel romanzo Il deserto dei Tartari dello scrittore Dino Buzzati, il protagonista, l’ufficiale Giovanni Drogo, trascorre trent’anni nella fortezza Bastiani ad aspettare l’assalto dei nemici, senza che questi mai arrivino; e quando sembra che stiano muovendo verso la fortezza, egli muore in un altro luogo, frustrato dalla vana attesa di non aver almeno potuto combattere contro qualcuno. Anche nel dramma Aspettando Godot di Samuel Beckett, i due protagonisti, seduti su una panchina, aspettano invano l’arrivo di un misterioso personaggio, Godot appunto, che nel suo nome presenta la radice God, che in inglese significa Dio. Cosa rimane a chi non aspetta più Dio? Solo di vivere l’insignificanza godereccia del presente, «come fu ai giorni di Noè… mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» (Mt 24,39). Quando non si apre il cuore ad un’attesa più grande, allora non resta che ripiegarsi su se stessi, in una sorta di disperazione orizzontale. Essa lascia nella frustrazione esistenziale (i più sensibili), oppure conduce a cercare di godere quanto più possibile il piacere dei sensi (la maggior parte). D’altra parte, anche san Paolo lo dice, a proposito dell’attesa della risurrezione: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (1Cor 15,32). Il sesso e il cibo sono un surrogato alla mancanza di senso della vita e così, in genere, tutte le dipendenze (alcol, gioco d’azzardo, droga). Ecco allora la domanda che l’inizio dell’Avvento ci pone: la nostra attesa di vita ha un orizzonte aperto? Se Dio è la nostra più profonda ultima attesa, allora «comportiamoci onestamente» (Rm 13,13) e «teniamoci pronti perché, nell’ora che non immaginiamo, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,44).
(Già pubblicato dall’autore sulla rivista CREDERE, I domenica di avvento, anno A, 2019)