Dell’utile conversare d’arte
dal Catalogo DiArt
Scorrendo le pagine di questo catalogo si potrebbe rimanere colpiti dalla quantità numerica degli artisti e dalla loro varia e pluriculturale provenienza. Al di là delle capacità e dei meriti di ciascuno di loro, questa caratteristica conferisce alla Collezione qui raccolta un indiscusso valore documentario. Questi artisti non si conoscono tutti tra loro. Siamo in cinque, tuttavia, a conoscerli (quasi) tutti. Una storia per certi versi sorprendente, che ora mi proverò a raccontare.
Il lontano antefatto
Nel 1990 faccio la conoscenza di un ragazzo albanese, che è venuto ad abitare sotto casa mia. Ha fatto la scuola d’arte e dipinge. In Albania l’arte è normata e controllata dallo Stato, ed è costretta a rappresentare l’ideologia al potere. L’esperienza di Lucjan (questo il nome del ragazzo) mi costringe a riflettere, per la prima volta non astrattamente, sulla funzione sociale dell’arte, sui difficili rapporti tra gli artisti e le loro committenze, quindi sul glorioso passato della committenza ecclesia-stica e sul difficile presente. Intraprendo intense conversazioni: prima saltuarie, quindi una piacevole abitudine del pranzo della domenica (Lucjan è diventato nel frattempo fidanzato, quindi marito, di mia sorella). Comincio a leggere riviste d’arte e a visitare musei. È in questo periodo che faccio l’incontro con la pittura di Stefano Gianquinto, un artista della mia parrocchia di Locogrande. Anche lui diventa un mio interlocutore della domenica. Ci incontriamo a Messa e spesso mi porta a vedere i suoi lavori. Stefano parla continuamente di pittura: della sua e del suo maestro veneziano, Alberto Gianquinto, di origini trapanesi, straordinario artista più volte invitato alla Biennale di Venezia. E Stefano ha già esposto a Castelfranco Veneto nella Galleria di Alberto, la “Flaviostocco”.
Nasce la piccola cappella dell’Annunciazione
Nel 1995 si organizza a Locogrande una via crucis da fare per le strade. Invito alcuni pittori a rappresentare le 14 stazioni. Si incontrano Stefano Gianquinto, Lucjan Marku, e altri. In quel gruppo c’è anche Cristina Martinico, oggi una creativa fotografa e grafico pubblicitario. E c’è anche Maria Pia Adamo. Maria Pia è architetto e vive in un’altra piccola frazione, Salinagrande, dove ogni domenica vado a celebrare messa. Abbiamo cominciato a frequentarci, a parlare d’arte contemporanea; sono altre belle conversazioni domenicali capaci di rosicchiare ore anche alla notte. Lei ha deciso di iscriversi all’Accademia di Palermo. Sembra a tutti una follia; a tutti, ma non a me. Nel frattempo Stefano prepara una mostra (si farà due anni dopo) per l’Oratorio di Santo Stefano Protomartire a Palermo. Vuole che sia io a presentarla e a scrivere per il Catalogo. La stessa cosa mi chiede di fare Maria Pia per una mostra organizzata dal Centro Culturale di Hammamet in Tunisia. Approdiamo così all’aprile del 1998. Da appena un mese è arrivato in diocesi il nuovo vescovo, Mons. Francesco Miccichè. Mi chiama e mi chiede di assumere l’incarico di rettore del Seminario. Mi trasferisco a Palermo con i seminaristi. Ma non posso fare a meno di guardare quell’enorme contenitore vuoto che è l’edificio del no-stro seminario a Trapani. Dice un documento della Congregazione per il Clero rivolgendosi ai Vescovi: «è opportuno ricordare che l’ambiente in cui si svolge la formazione dei futuri preti è già, di per se stesso, dotato di capacità formativa. Anche un ambiente semplice, o di concezione moderna, può essere più o meno capace di facilitare un clima di raccoglimento e di far crescere un’adeguata sensibilità estetica»1. Il mio vescovo deve averlo letto. Subito chiede che si adatti un’ala del seminario a decorosa abitazione per i ragazzi di scuola superiore. Incarico Maria Pia Adamo del lavoro di ristrutturazione. Nasce la nuova piccola cappella con le due sue installazioni (Staurofotìa, Croce antropomorfica).
L’arte del presente ha messo piede in seminario.
Il Giubileo e il primo nucleo della Collezione
Anche il mondo della cultura si accorge che qualcosa sta cambiando e che il nemico da combattere non sono più le religioni (così era stato a partire dall’Illuminismo). Maurizio Calvesi lo annota con puntualità in un suo Editoriale del gennaio 1999: «Oggi il nemico è diventato, distintamente, un altro. Contro la cultura non congiura la Chiesa, ma l’idolo dell’audience che porta a privilegiare i temi fatui e le semplificazioni e a ridicolizzare come anacronistica (in quanto monetariamente improduttiva) la figura dell’intellettuale e dell’artista che non si pieghi all’omologazione mediatica»2. Contro questa omologazione Calvesi invoca una restituzione di fiducia da parte della Chiesa al mondo della cultura laica in crisi d’identità e ammette che «in presenza di un nuovo, comune nemico, la cultura e il sacro cessano di essere antagonisti per divenire potenziali alleati»3. Giunge intanto il 2000, anno giubilare. Tra le tante iniziative diocesane prende forma il Giubileo degli Artisti, organizzato dalla neonata “Pastorale degli Artisti” guidata da don Piero Messana. Don Piero mi invita a conoscere un pittore palermitano, Nino Pedone, invitato per la mostra celebrativa. Con Pedone inizia un’amicizia e una stretta collaborazione didattica; la sua presenza in seminario diventa familiare; la sua pittura (attratta dal mistero dell’Incarnazione) ha la qualità giusta per stare dentro la piccola nuova cappella del Seminario Minore, che chiamiamo “dell’Annunciazione”. Da questo momento sarà continuo il feeling tra la pastorale degli artisti e il nuovo corso del seminario. Anche le Istituzioni d’Arte si mostrano sensibili al momento storico. L’Accademia delle Belle Arti di Palermo, che intanto ha aperto una sezione di Arte Sacra, nella persona del professore Franco Nocera, organizza un corso di pittura dedicandolo alle Tavole d’Altare, opere di dimensione notevole, un lavoro di ricerca davvero impegnativo per i suoi allievi; tra questi, naturalmente, Maria Pia Adamo. Alla quale viene un’idea (!): perché non chiedere all’Accademia di far dono delle Tavole al Seminario? Troverebbero una visibilità altrimenti difficile. Ricordo ancora il simpatico incontro tra me, il Vescovo, Maria Pia e il lungimirante (allora Direttore) Stefano Lo Presti: segna la costituzione del primo nucleo di quella che oggi chiamiamo DiART. Le Tavole fanno un piccolo giro di mostre e nel marzo del 2001 approdano in Seminario, dove si organizza anche un’estemporanea del locale Liceo Artistico Statale. I seminaristi ora sono più coinvolti, colgono alcuni importanti significati dell’arte contemporanea; me ne rallegro sapendo che questo è uno dei miei (tanti) compiti. Mi convinco sempre più de «l’utilità, nel cammino formativo dei se-minaristi, di iniziative specifiche come l’incontro con artisti e critici d’arte, la partecipazione a qualche manifestazione artistica di particolare rilievo, la visita ai più importanti monumenti religiosi e civili»4 (Idem, 24). L’equipe formativa del Seminario si arricchisce dell’apporto di nuove figure impegnate nell’arte: Francesca Massara; Maurizio Vitella. E conosciamo meglio anche il dottor Umberto Utro che, nel viaggio giubilare del seminario di Trapani a Roma con il nostro Vescovo, ci aveva portato a visitare le catacombe di Priscilla e la Cappella Sistina: lo seguiamo volentieri anche in alcune lezioni universitarie tenute a Palermo; io stesso coinvolgo i ragazzi del seminario in alcune piccole mie collaborazioni con l’Università.
La svolta
È la primavera del 2002. Stefano Gianquinto organizza una sua personale a Trapani. Nuovamente mi chiede di presentare i suoi lavori. Lo faccio con maggiore convinzione e, soprattutto, cognizione. A quell’inaugurazione è presente Antonio Sammartano, un giovane artista che si è mosso da Milano (dove ha frequentato l’Accademia di Brera) per stabilirsi a Locogrande (guardacaso), dove ha una piccola abitazione. Ci presentiamo e mi lascia il suo numero di telefono. Vuole farmi leggere un libro, dove i pittori parlano d’arte e di fede. Lo chiamo e viene a trovarmi in Seminario. Rimane affascinato dagli spazi dell’edificio, e io rimango colpito dalla sua ingenuità: vuole l’arte contemporanea a Trapani, fare incontrare gli artisti, dare un contributo alla città, farla uscire dal torpore. Vuole tante cose che voglio pure io, che vuole il mio Vescovo, che vogliono i Presbiteri della mia Chiesa impegnati sul territorio della nostra Diocesi. Antonio ha lasciato Milano, Brera, molti contatti importanti che aveva con Paolo Minoli e con tanti giovani promettenti artisti. Pian piano questi artisti co- minciano a visitare Trapani. Rimangono colpiti dalla Città. Due di loro, Luca Antonini e Alberto De Braud, pensano anche di mettervi su casa per qualche periodo dell’anno. Intanto anche la pastorale diocesana degli artisti, sotto l’impulso del Vescovo, fa grandi passi e don Piero Messana organizza il grande evento che sarà “IncontrArti 2002”, l’incontro di tutte le Arti. La preparazione dell’happening estivo ci permette la conoscenza di altri interessanti personaggi: Mario Cassisa, Gaetano Costa, Mauro Mannone, Francesca Scalisi, Stefano Artale. Alcuni di essi vengono invitati a esporre a Milano. Altri, come Mario Cassisa, espongono nella chiesa trapanese di Sant’Alberto, messa dal vescovo a disposizione degli artisti. Il piano pastorale del 2002-2003 “Ognuno li sentiva parlare la propria lingua” esorta a ricomprendere i linguaggi della comunicazione, e tra questi l’arte. Le parole di Paolo VI, citate nel testo del vescovo, diventano un “manifesto” del nostro impegno: «Siamo sempre stati amici. – dice il Papa agli artisti – Ma, come avviene tra parenti, come avviene fra amici, ci si è un po’ guastati … Vi abbiamo fatto tribolare. Non vi abbiamo spiegato le nostre cose … vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’ oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa … Ma ci permettete una parola franca? Anche voi ci avete un po’ abbandonato, siete andati lontani, a bere ad altre fontane … Qualche volta non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte neanche voi … Rifacciamo la pace? Vogliamo ritornare amici?». “IncontrArti” regala alcune opere alla Collezione. Ma ormai arrivano artisti ed opere senza interruzione e da tutte le parti. Le case di Antonio e di Maria Pia (ma anche il seminario) diventano luogo di passaggio di molti di loro: conosciamo personalmente Mirella Spinella, Marco Marchini, Kazumi Kurihara, Giovanna Bolognini, Alfredo Maiorino, Claudio Guarnieri, Alberto De Braud, Tomas Kaiser, Franca Formenti, Chiara Fragalà, Alessandra Nobile, Nicolò D’Alessandro, Igor Scalisi Palminteri. Si discute d’arte, di fede, con semplicità. Per me un’occasione straordinaria di crescita. Kim Young Mi (per gli amici Cabin) si ferma ospite di Maria Pia per due settimane (poi piacevolmente prolungate a tutta l’estate) e porta a termine in seminario la sua opera fatta di pietre raccolte a Valderice. Niki Takehiko viene ad incontrare i ragazzi del Liceo Artistico, tiene per loro una bellissima lezione e racconta l’emozione da cui sono nate le due foto da lui lasciate alla nostra Collezione. Una sera Antonio viene a trovarmi con un suo amico artista. Si chiama Francesco Impellizzeri. Trapanese di origine è andato via da Trapani a cercare miglior fortuna; amico di Carla Accardi vive a Roma, ma ormai il suo lavoro di artista lo porta in giro per l’Europa. Non appena vedo la sua “Madonna di Trapani” sento che quell’immagine ha trovato la sua casa in seminario. Trascorriamo una serata ad ascoltare musica, a parlare d’arte, di Trapani, e di un nostro sogno: un quadro di Carla Accardi nella nostra Collezione, un piccolo ritorno della grande Artista nel luogo della sua nascita. E passano veloci le settimane, la vita con i seminaristi. Ma ormai è come se qualcun Altro avesse deciso di muovere le cose, nostro malgrado. Un esempio. Viene a trovarmi una cara amica di Como: Grazia Villa. Le racconto della Collezione, le faccio vedere le opere già raccolte. Tornata a Como lei incontra il suo amico Roberto Borghi, critico d’arte, e sta due ore a parlargli della nostra iniziativa, dell’adre-nalina che ci mettiamo. Borghi è recensore di vari artisti; tra questi c’è un giovane promettente, si chiama Paracchini. A mia insaputa, intanto, Antonio, che conosce il critico, manda una coraggiosa e-mail proprio a Paracchini chiedendogli un’opera per la Collezione. Paracchini fa una perplessa telefonata a Roberto Borghi, proprio il giorno dopo l’incontro con Grazia: «Ma chi sono questi due, un certo Antonio Sammartano e questo padre Liborio, che allestiscono a Trapani una Collezione d’Arte Religiosa…? Gliela mando un’opera?». «Certo, – gli risponde Roberto, – ti puoi fidare, è una cosa serissima». E avviene un altro piccolo miracolo: si incontrano gli artisti dell’area trapanese. Molti andiamo a trovarli; altri mettono piede in seminario. Giuseppe Pizzardi, Giovanni Valfrè, Enzo Romeo, Marco Scirè, Peppe Occhipinti, Bruno Costantino, Franco Mineo, Gaspare Occhipinti, Leonardo La Barbera, Vincenzo Lipari, Maurizio Oddo, Enzo Tardìa. Proprio Enzo ci mette in contatto con Lino Tardìa, e due piccole tele dell’artista approdano alla Collezione. Ma non mancano i contatti con altri stranieri, dall’India all’Albania, dalla Finlandia alla Corea: Ganesha Sastri, Michael Oberlik, Eija Turtiainen, Jung Uei Jung, Cho Chi Yun, Peter Fitze, Venera Kastrati. Ci si scrive, ci si sente al telefono. E quando per volontà del Vescovo il nostro giovane diacono Vito Lombardo si iscrive all’Accademia, mi incontro con Salvatore Mineo, con Gina Nicolosi e Carla Horat. Arrivano opere sconvolgenti come quella di Marco Papa. Capiamo sempre più che essere al centro dipende solo dall’ampiezza del nostro sguardo.
Arte Religiosa o Arte Sacra?
La scelta del nome della Collezione ci fa discutere parecchio. Si accetta infine DiART per la sua semplicità, perché evoca la parola Dio e perché consente di connotare come “religiosa” questa nostra collezione d’arte. Nel termine “religioso” troviamo una serie di possibilità semantiche davvero sorprendenti e tra tutti ci sembra, in definitiva, il più inclusivo. Paolo VI lo sceglie nel 1973 per la Collezione Religiosa d’Arte Moderna dei Musei Vaticani e ne esprime le motivazioni nel discorso di inaugurazione. La sua premura è di distinguere nettamente l’arte della Collezione Vaticana da quella che propriamente è detta “Arte Sacra”. L’Arte Religiosa comprende per Paolo VI quelle «espressioni artistiche dalle quali tacitamente traspare, o palesemente si afferma, un riferimento, un’intenzione, un soggetto religioso liberamente concepito dall’artista», mentre “sacre” si chiamano quelle «destinate e qualificate per il culto sacro»5. Il termine “religioso”, prima che la confessione militante di una religione, richiama una categoria dello spirito umano, che si colloca, a detta degli antropologi, tra le dieci costanti di tutte le culture umane; il “religioso” evoca innanzitutto l’ambito specifico delle domande radicali dell’uomo sulla vita e sulla morte, sulla salute e sulla malattia, sull’identità e sulle differenze, sulla salvezza e sulla dannazione, sul credere o non credere, lo statuto, insomma, dell’homo viator che si interroga sul significato del mondo e che, prima di voler dare le risposte, soffre nel porsi le giuste domande. Perciò l’homo religiosus rivendica un suo ambito espressivo, in cui egli cerca di “religare”, cioè di mettere insieme le sue domande, per riuscire poi a indirizzarle verso qualcosa o per rivolgerle a Qualcuno che gli possa rispondere6. L’ambito “religioso” si distingue, dunque, da quello che potremmo chiamare “sociale”, “filosofico”, “politico-civile”, “erotico”. Esso possiede uno specifico patrimonio di simboli universali, che stanno alla base di ogni codificazione rituale, in cui il rito, in seconda istanza, serve ad esprimere “in azione” la parola di un Mito-Racconto. è in questo passaggio che il “religioso” si “sacralizza” nel patrimonio dei significati simbolici specifici delle diverse Religioni. «Solo un’arte le cui stesse forme riflettano la visione spirituale propria di una data religione, merita l’epiteto di sacra»7, dice felicemente Titus Burckhardt. Ecco perché un “soggetto” tratto dal Mito-Racconto di una religione può non risultare “sacro” a motivo delle “forme” improprie che adotta, e potrebbe anche non qualificarsi come “religioso” qualora risulti inconciliabile la distanza che esso pone tra il Mito-Racconto che propone e la domanda esistenziale che ne dovrebbe scaturire. Questa possibile “schizofrenìa” dell’arte “sacra-religiosa” era ben chiara nella mente di Paolo VI, che nel suo confiteor di dieci anni prima, davanti agli artisti riuniti nella Cappella Sistina, ammetteva: «Siamo ricorsi ai surrogati, all’oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa»8. Ma non solo questo. L’attardarsi sulle forme “profane” del Barocco e del Rinascimento per esprimere i soggetti religiosi del Cristianesimo aveva portato (e porta) la Chiesa ad un frainteso classicismo davvero stucchevole e aveva costretto (costringe) gli artisti ad esprimere fuori da Essa la potenza del proprio sentimento religioso (e cioè quello che Paolo VI con termine tecnico chiama Einfühlung). Proprio un collaboratore di Paolo VI e grande artefice della Collezione Vaticana, cioè Monsignor Ennio Francia, si permetteva le parole crudeli di cui c’era bisogno, se non altro per uscire dall’empasse: «Mentre i cosiddetti artisti di chiesa laicizzavano il sacro con immagini edonistiche e profanavano con dilettazioni opulente i volti di Cristi e di Madonne, la serietà della vita e il mistero delle cose erano rivendicati dai pittori e poeti maledetti, in un trasalimento che si traduce nel rifiuto ad ogni arrendevolezza…»9. E premette che «sarà una storia da scrivere, con molta prudenza e delicatezza, questa della religiosità degli artisti nuovi»10. Il loro – dice Francia – è «un mondo che cammina, non sempre gradevole e spesso infelice, ma senza ipocrisie e sotterfugi, talora disperato e mai cinico»11. E ammette con risolutezza che «artisti che pagano così duramente l’omaggio alla verità e l’amore alla bellezza, e che sono così drammaticamente impegnati nella contemplazione della realtà, non possono non essere “naturaliter” religiosi»12. Senza dunque dover tirare per forza in ballo artisti cattolici confessanti (Rouault, Gaudì o Manessier) come si può non considerare “religiosa” l’arte di Cezanne (che andava a messa ogni domenica, eppure non gli è mai venuto in mente di dipingere una Madonna) o quella di Morandi (che a messa invece non ci andava mai)? E la gioia di Matisse – ci chiediamo – è un punto di partenza del suo carattere o non piuttosto una personale religiosa conquista del senso del suo operare? «è nella cappella di Vence che mi sono finalmente svegliato a me stesso, ed ho compreso che tutto il lavoro accanito della mia vita era per la grande famiglia umana, alla quale doveva essere rivelata, per mio tramite, un po’ della fresca bellezza del mondo»13; sono parole dell’artista a settant’anni. Un fatto è certo: se un’opera a soggetto sacro può non essere religiosa (e lo abbiamo esplicitato), solo un’opera “religiosa” potrà giungere a connotarsi anche come “sacra”. E dovrà essere questo il punto di partenza per uno sguardo sulle opere della nostra Collezione. Al di là di ogni stilistica precomprensione e moralistico pregiudizio.
Il meraviglioso precipitare della situazione: I Musei Vaticani. Carla Accardi. Alberto Gianquinto e gli Altri.
Siamo all’epilogo. A metà gennaio di questo 2004 si decide (un po’ “alla Don Chisciotte”), di raccogliere le opere della Collezione in una Esposizione permanente e di inaugurarla. Il 17 aprile è l’unica data possibile per il Vescovo. Si respira profondamente. E partiamo. Ora non saprei dire come, in poco più di tre mesi, siano accadute tante cose. Paola Nicita accoglie il nostro invito a scrivere per la Collezione. Il Vescovo, forte della buona impressione espressa dal dottor Umberto Utro sul nostro lavoro, e cosciente di un’amicizia con gli artisti che la nostra Chiesa ormai coltiva, scrive dell’iniziativa al Direttore dei Musei Vaticani, Francesco Buranelli, e lo invita ad essere presente; e il Direttore, subito, accetta. Io penso di scrivere a chi non avevo mai osato: Carla Accardi; la signora Luciana, vedova di Alberto Gianquinto; Ennio Calabria; Carmelo Zotti; Piero Guccione. Mi incoraggia Flavio Stocco, conosciuto personalmente a Marsala l’estate scorsa e ora grande sostenitore della nostra piccola follìa: una boccata di ossigeno nella nostra discesa in apnea dentro il mare magnum dell’arte del presente. Tutti questi artisti accettano di partecipare: per una misteriosa fiducia che comincia a circolare tra noi, per loro sensibilità verso i temi universali della fede e per un’azione del cuore capace di mettere a tacere ogni calcolo.
Che sia il Tipping-Point di Dio?
Organizziamo le sezioni del Catalogo. Ne viene fuori, chiara, la grande ricerca che gli artisti sentono in cuore sul senso della vita e della loro arte. Le domande radicali sono tutte lì, nel cuore di persone chiamate, loro malgrado, ad esercitare la profezia di ogni umana inquietudine. La prima sezione, Homo viator, raccoglie questa ricerca e, nel suo piccolo, la documenta. La seconda sezione (Historia Salutis ante Christum) rivela, con le sue pochissime opere, un’assenza dell’Antico Testamento nella sensibilità artistica attuale. È Gesù, invece, ad affascinare ancora gli artisti (sezione terza: Historia Salutis ab Incarnatione), dal suo Ingresso nella Storia, al crudele Golgota, fino alla Risurrezione. Nel loro interesse c’è anche la Chiesa (il suo culto, i suoi santi, la sua Teologia: Vita Ecclesiae), ma con prudenza, a volte con diffidenza. Tuttavia quasi 200 opere attestano che Dio sembrava morto, e che invece non lo è. La raccolta è un piccolo inaspettato traguardo e un nuovo punto di partenza. All’interno del lavoro più ampio della Biblioteca Diocesana, a cui la DiArt strettamente appartiene, si dovrà interagire con gli artisti approfondendone le intenzionalità, i contenuti, la coerenza della cifra stilistica. Come il cesello dopo la sbozzatura. Intanto, per quanto riguarda questa prima fase, abbiamo toccato, come si dice negli ambienti dell’Arte, il nostro Tipping-Point, cioè quel punto-soglia oltre il quale (come nelle epidemie fa un virus), un’idea o un comportamento producono un effetto a valanga. Sembra, cioè, che il virus di Dio si aggiri ancora, e pericolosamente, nei cuori umani; pare che ancora sia in grado di produrre cambiamenti e generare comportamenti che, oltre la soglia dell’Incontro e dello Sguardo, rivelano in corso una grave malattia d’Amore. A tutti, con sincerità, auguriamo di non guarire.
Note
1 Congregazione per il Clero, Il Santo Padre, Lettera ai Vescovi residenziali sulla formazione dei candidati al presbiterato circa il patrimonio storico e artistico della Chiesa 1992, 15.
2 Calvesi, M., Il comune nemico, ARS 12/1 (13), Dicembre 1998- Gennaio 1999, p. 5.
3 Ibidem
4 Congregazione per il Clero, op. cit., 24
5 Paolo VI, Discorso per l’inaugurazione della Collezione Vaticana di Arte Religiosa Moderna del 23 giugno 1973, in De Angelis, D., Enzo Rossi e l’Istituto d’arte Roma 2, Roma 1998, p. 89.
6 Si confronti, su questi concetti, l’Introduzione di Francesco Buranelli al Catalogo delle ultime acquisizioni dei Musei Vaticani, pubblicato qui in Appendice.
7 Burckardt, T., L’arte sacra in Oriente e in Occidente, Milano 2003 (1974), p. 5
8 Paolo VI, Discorso tenuto agli artisti nella Cappella Sistina il 7 maggio 1964, in De Angelis, D., Enzo Rossi e l’Istituto d’arte Roma 2, Roma 1998, p. 86.
9 In De Angelis, D., Enzo Rossi e l’Istituto d’arte Roma 2, Roma 1998, p. 24.
10 Ibidem
11 Ibidem
12 Ibidem
13 Ibidem, p. 73.
14 Termine usato, con questo senso, nel foglio di presentazione dell’Archivio del Contemporaneo della Biennale di Venezia del 2003